Lettera di S. del 14/3/2018

S. mi ha chiesto di condividere questa lettera, capirete il perché di questa richiesta leggendo lo scritto.

Dal mio punto di vista questo scritto rende chiaramente l’idea che non è una diagnosi che ci salverà, ma il riconoscerci simili nella diversità che ognuno di noi è ed esprime.

 

Tutto ciò che non avrei voluto essere a trentaquattro anni è pranzare da sola nel silenzio di una casa dal sapore precario, come quello dell’esistenza al cui tavolo mi trovo a presenziare ad un convivio senza commensali. Non avrei mai voluto essere assente da un progetto, vivere alla giornata, all’ora, al minuto, così da non sapere come riempire il tempo con attività che non tessono nessuna trama di un programma. Un processo senza scopo, un processo che ha per esito una condanna, la cui pena è una domanda: che cosa ci sto a fare qua?

È così che inizia un flusso di coscienza, è così che inizia la riflessione di una donna che nel mazzo ha tutte le carte per giocare e vincere, ma a cui hanno tagliato le mani. Dicono che una scelta l’abbiamo sempre e che siamo noi a decidere di farci amputare gli arti, anche se ne siamo scontenti. Credo che sia vero, ma questo non fermerà l’ardore della tristezza che irradia petto e braccia.

La mattina è il mio momento, quello in cui nel silenzio trovo un corrispettivo in cui mi riconosco; caffè, sigaretta, poi un’altra, fino a che la giornata deve iniziare.

Saluto il mio fidanzato nel bilico costante di dove ci vedremo stasera, ma non importa, finalmente ho trovato una persona che mi ama, ma l’amore è una cosa così astratta e tanto presente, così irruenta che ancora oggi non so definire, non so come si traduca in azioni concrete, non ne abbiamo in effetti.

Vivo da sola e non ho un progetto di coppia, non ho nemmeno una illusoria certezza di dove vivrò tra un anno, non conosco domani, viviamo alla giornata finché quel che c’è può distrarci dall’immane peso del futuro.

Lavoro con la frustrante e consistente presenza della domanda: che senso ha?

Mi serve per sopravvivere, pagare l’affitto e le bollette, ma perché?

Vuoto, sale già dalle 11:30 del mattino, mi aspetta il pranzo, senza colleghi, senza i figli che non posso avere, senza un compagno, un famigliare o un cane.

Cosa faccio oggi pomeriggio? Niente, oppure posso passeggiare, posso contemplare il mondo al fine di allontanarmi da quel vuoto che ora ha invaso lo stomaco, mi ripeto che non è fame, ma è rabbia, è fame di giustizia!

Cos’è che sarebbe giusto? Tante cose, ma non sento di avere il potere di occuparmene, potrei però cercare giustizia altrove, combatto per cause di qualcun altro come se fossero le mie, lo sono in fondo, mi state salvando mentre pensate che io stia salvando voi.

Allora mi arrabbio per la violenza sulle donne, per l’omofobia, per le discriminazioni etniche, per il bullismo, per le discriminazioni verso le minoranze, per gli animali abbandonati, per le galline allevate nelle gabbie, per la fame nel mondo, per la mancanza di lavoro e per l’induzione alla prostituzione.

La rabbia cresce e si trasforma in attivismo, in lotta, nell’orgoglio di appartenere ad una minoranza. Quale minoranza? Non importa, se ci guardassimo bene vedremmo che ognuno di noi per qualche aspetto di sé appartiene ad un gruppo che non è la maggioranza.

Escitalopram 20 mg la cura, ma la diagnosi qual è?

Forse non c’è, come assente è la vita in questo furente spazio che occupa il mio corpo disgustato da me. Vivere senza scopo è quello che non si augura a nessuno, se provi ad esprimerlo ti viene detto che passerà, ma cosa passerà se non c’è nulla?

Vivere aspettando la morte, guardare l’alba per cercare un inizio, passeggiare sul mare per avere un progetto, fare spesa per mangiare, senza sapori ne gusto, l’obiettivo è la ricerca di uno scopo che non c’è. Molte volte mi è stato detto che ho tutto chiaro, non sbaglio mai, cosa più lontana da me non c’è; faccio ciò che va fatto, ciò che gli altri si aspettano, ma il mio motivo non lo so.

C’è stato anche un periodo in cui avevo dei progetti: una famiglia, dei figli, un lavoro che mi permettesse di viaggiare, esplorare il mondo e condividerne la gioia. Poi buio.

Oggi sto qui seduta a scrivere con la consapevolezza che sono sola, il mio tempo è scandito da adempimenti e scadenze.

La sensazione alla pancia è passata, ho solo tanta voglia di piangere, magari spegnendo con le lacrime la sigaretta che mi tiene compagnia.

Il mondo di una persona triste che sente di aver perso non è poi così visibile, sta li in gran segreto, sorride ai viandanti, accarezza i tuoi capelli, ti offre aiuto, sta in silenzio e ti lascia parlare.

Una cosa l’ho compresa ed è per questo che scrivo questa lettera: anche se ci sentiamo soli, non siamo gli unici e forse questo potrebbe offrirci la possibilità di essere in compagnia tra le nostre solitudini.

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